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Licenziamento nel pubblico impiego: inapplicabile la legge Fornero

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Non si applicano le modifiche apportate dalla legge Fornero all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento dei dipendenti della pubblica amministrazione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11868, depositata ieri, 9 giugno 2016.

Tra le motivazioni, la considerazione che la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla legge Fornero, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato.

La decisione apre la strada ad un contrasto giurisprudenziale.

Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra un lavoratore e il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti che ne aveva disposto il licenziamento.

Il caso

La Corte d’Appello aveva respinto i reclami riuniti, proposti in base alla c.d. legge Fornero (art.1, comma 58, della legge 28 giugno 2012 n. 92), dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da R.C. avverso la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, per effetto del licenziamento intimato con provvedimento del 2.9.2012, e, ritenuta la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, aveva applicato il sesto comma dell’art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge sopra richiamata, condannando il Ministero a corrispondere al C. l’indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella misura minima di sei mensilità.
La Corte d’appello premetteva che il procedimento disciplinare era stato avviato con contestazione del 2 marzo 2004, con la quale era stato addebitato al dipendente, per quel che qui interessa, di avere effettuato “operazioni per conto dell’Ufficio Provinciale di R. mentre era in missione per esigenze del CSRPAD (Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località ovviamente diverse”. Il procedimento era stato contestualmente sospeso perché i fatti emersi a seguito di visita ispettiva, di rilievo penale, erano stati segnalati dal Ministero all’autorità giudiziaria. A seguito del passaggio in giudicato della sentenza del 24 maggio 2012, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati all’imputato, il procedimento disciplinare era stato riavviato mediante richiamo alla originaria contestazione e, all’esito della audizione dell’incolpato, era stato disposto il licenziamento per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva incompatibilità assoluta fra le missioni, non giustificabile se non ipotizzando gravi falsità compiute nel corso dell’uno o dell’altro incarico, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, il quale, sul presupposto della insussistenza del fatto e, comunque, della non riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, questi chiedeva alla Cassazione, in via principale, di riconoscere le tutele previste dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo, come modificato dalla legge 28 giugno 2012 n. 92. L’impugnazione incidentale, quindi, muoveva dalla ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, applicabilità affermata anche dai giudici di merito che, sia pure senza motivare sul punto, avevano fatto discendere dalla ritenuta violazione delle regole procedimentali le conseguenze previste dal comma 6 della norma modificata.

Decisione della Corte di Cassazione

La Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, affermando un principio di grande importanza e che entra in contrasto con altro, recente, precedente giurisprudenziale di legittimità e che, proprio per tale ragione, dev’essere in questa sede evidenziato.
Orbene, la Cassazione nella sentenza qui commentata non ignora che sulla questione si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nell’art. 51 del d.lgs 165 del 2001 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro i commi 7 e 8 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 nonché la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e seguenti delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.Una precedente sentenza della Cassazione (la sentenza 25 novembre 2015 n. 24157) aveva fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poiché, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dall’art. 2 del d.lgs n. 165 del 2001, aveva ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto al primo ed al secondo comma dell’art. 18 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Orbene, con la sentenza qui commentata la Cassazione sconfessa quanto affermato da tale decisione, giacché plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall’art. 2 del d.lgs n. 165 del 2001. Secondo la Cassazione non si estendono, in particolare ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.

Motivazioni della decisione

Queste in sintesi le ragioni che hanno indotto la Cassazione a tale soluzione:
a) la definizione delle finalità della legge n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il d.lgs 27.10.2009 n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non agli artt. 55 e 55 bis del d.lgs citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate” ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti c.c.”;
d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi. Viene,cioè, in rilievo non l’art.41,1° e 2° comma,della Costituzione, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
Da, qui, dunque, il rigetto del ricorso incidentale del lavoratore.

Effetti della sentenza

Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla Cassazione, ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs 30.3.2001 n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge Fornero all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata legge Fornero resta quella prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel testo antecedente alla riforma.
A cura della Redazione

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