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La Cassazione fa chiarezza sui redditi di capitale soggetti a contribuzione

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La questione sottoposta al vaglio della Cassazione attiene al fatto se il lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, debba parametrare o meno il proprio obbligo contributivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di capitali nella quale egli non svolge attività lavorativa.


A decorrere dall’anno 1993, in seguito alla modifica operata dal D.L. n. 384 del 1992, art. 3 – bis convertito con modificazioni nella L. 14 novembre 1992, n. 438, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attivita’ commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono” .

L’ampliamento della base contributiva deve però essere necessariamente contenuto entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere in via analogica della portata delle relative previsioni, pertanto, tra i redditi di impresa non vanno inclusi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986 i redditi del socio di società a responsabilità limitata.

Lo ha precisato 

Cassazione Civile Sent. Sez. L Num. 21540 Anno 2019
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: CALAFIORE DANIELA
Data pubblicazione: 20/08/2019

Leggiamo insieme la sentenza.

Il fatto

La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza n. 32/2017, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto l’opposizione all’avviso di addebito con il quale veniva ingiunto a (omissis) il pagamento dell’importo di Euro 20.557,74 preteso dall’INPS a titolo di contributi dovuti alla gestione artigiani cui era iscritto per gli anni 2009, 2010 e 2011, a
percentuale e sul reddito eccedente il minimale, e relativa al reddito da partecipazione nella società (omissis), a responsabilità limitata di installazione di impianti idraulici.
A fondamento della decisione la Corte ha rilevato che il D.L. n. 384 del 1992, art. 3 – bis convertito con modificazioni nella L. 14 novembre 1992, n. 438, prevede che a decorrere dall’anno 1993 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono” e che tra i redditi di impresa non vanno inclusi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986 i redditi del socio di società a responsabilità limitata, stante l’assenza dell’apporto personale presente nella diversa ipotesi del reddito prodotto dal capitale investito in una società in accomandita semplice considerata dalla sentenza 354/2001 della Corte Costituzionale.

Contro la sentenza l’INPS ha proposto ricorso per Cassazione.

Excursus normativo

L’art. 3 bis del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla L. 14 novembre 1992 n. 438, ha previsto che «A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’art. 1, L. 2 agosto 1990, n. 233 , è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi sì riferiscono».

La disciplina previgente era contenuta nell’art. 1 della L. 02/08/1990, n.233, che prevedeva al primo comma che «A decorrere dal 1° luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente».

Con la nuova disposizione rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex art. 1 della L. n. 233 del 1990.

Il legislatore ha dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta.

La differente formulazione della norma realizza chiaramente un ampliamento della base imponibile contributiva, secondo un mutamento normativo che il legislatore ha inteso perseguire, in connessione con il processo di armonizzazione della base imponibile contributiva a quella valevole in ambito tributario. 

Al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22/12/1986, n. 917.

Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44 lettera e) (nel testo post riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).

Poiché la normativa previdenziale individua, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale e considerato che secondo il testo unico delle imposte sui redditi gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS.

La soluzione che qui viene adottata è del tutto coerente con l’impostazione del sistema come delineata dall’art. 38 II comma della Costituzione, che prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri capitali a scopo di utile.

Diversamente, per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (art. 6 comma 3 del testo post riforma del 2004 del D.P.R. n. 917 del 2016).

Ed è proprio il diverso regime dettato per le società di persone da cui deriva il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale. 

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 354 del 7 novembre 2001, ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società dì capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 bis d.l. 19 settembre 1992 n. 384, conv., con modif., in L. 14 novembre 1992 n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali. Ha infatti rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; né la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi dell’art. 5 L. 2 agosto 1990 n. 233, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa.

E’ vero che la Consulta nel richiamato arresto ha rilevato che dall’art. 38, comma 2, Cost., non si desume un’intima e indefettibile correlazione tra contribuzione e reddito di lavoro e che anzi, le più recenti riforme in materia evidenziano sia il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nella attività stessa rinvengono soltanto mera occasione, sia la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione della base imponibile.

Tale tendenza all’ampliamento della base contributiva deve però di necessità essere contenuto entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere in via analogica la portata delle relative previsioni, tra l’altro, come avverrebbe accogliendo la tesi dell’INPS, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale.

Con questa motivazione la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Inps.

 

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