Home Fiscale e Tributario Frodi Iva: Ma se il mio fornitore non la paga?

Frodi Iva: Ma se il mio fornitore non la paga?

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Se il fornitore evade, l’Iva la paga il cliente!

Questo è quanto emerge da un articolo de “il sole 24 ore”.

Prima di detrarre l’Iva, l’imprenditore deve verificare che il fornitore di beni o servizi l’abbia effettivamente versata. Perché se così non è, scatta il reato di frode fiscale“.

La vicenda riguarda un imprenditore veronese, che si è visto contestare dall’agenzia delle Entrate la detrazione di un Iva che non era stata pagata a monte, partecipando, secondo il fisco, mediante sostanziali violazioni alla normativa, ad una frode tributaria, traendone indiscutibili vantaggi competitivi.

Ma vediamo di approfondire l’argomento.

Le frodi Iva

La stragrande maggioranza delle frodi Iva avviene attraverso le cosiddette “frodi carosello”.

Le frodi carosello sono caratterizzate da un meccanismo fraudolento attuato mediante vari passaggi di beni in genere provenienti da un Paese Ue, al termine del quale l’impresa italiana acquirente detrae l’Iva nonostante il venditore non l’abbia versata. In genere viene interposto un prestanome nell’acquisto tra un soggetto comunitario e un altro italiano.

Quali responsabilità in capo al cessionario?

In base all’orientamento prevalente, il soggetto societario che inconsapevolmente partecipi ad un’operazione fraudolenta non è assoggettabile a conseguenze sanzionatorie.

Solidarietà nel pagamento dell’imposta – Prezzi inferiori al valore normale

Al fine di contrastare il fenomeno evasivo, il legislatore italiano ha introdotto la cosiddetta “Solidarietà nel pagamento dell’imposta”, la quale prevede che: “In caso di mancato versamento dell’imposta da parte del cedente e relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, il cessionario è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta”.

Onere della prova e abuso del diritto

Consapevolezza

La Corte di Giustizia Unione Europea riconosce valenza al profilo soggettivo del contribuente, al fine di tutelare il principio dell’affidamento e della buona fede. Per cui ritiene di dover negare la detrazione nella misura in cui sia comprovata la consapevolezza, da parte del contribuente, del meccanismo di raggiro posto in essere dal cedente, nel senso della sua conoscenza o conoscibilità.

Buona Fede

Di converso, reputa di dover riconoscere l’esercizio della detrazione al contribuente in buona fede all’oscuro della frode (Corte di Giustizia Unione Europea, 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04, C-440/04; Id., 27 settembre 2007, causa C-409/04).

Ignoranza e inconsapevolezza

La buona fede, se dovuta a comprovata ignoranza e inconsapevolezza dell’operatore, è inidonea all’esercizio del diritto di detrazione dell’Iva in presenza della prova che l’operatore, facendo uso dell’ordinaria diligenza richiesta per la specifica attività svolta, sarebbe potuto venire agevolmente a conoscenza del profilo fraudolento dell’operazione, acquisendo piena coscienza del proprio ruolo in seno a una catena commerciale viziata dal dolo specifico dell’evasione.

L’onere della prova

L’onere della prova in ogni caso grava sull’Amministrazione finanziaria, che, laddove sussista regolare fattura, è tenuta a dimostrare quali componenti oggettive siano atte a comprovare la sussistenza di circostanze da cui desumere l’effettiva conoscenza o la conoscibilità dell’operazione su cui fondava il diritto, sì da ricomprenderla nella cornice di un’attività volta a concretare un fenomeno evasivo mediante specifiche condotte del fornitore-cedente o di altro operatore commerciale.

Il rilievo assunto dalla buona fede

Se è pur vero che è onere dell’Amministrazione contestare la (altrimenti presunta) buona fede del contribuente, la nozione di buona fede ha un significato che trascende quello di mera conoscenza empirica dell’iter fraudolento.

Sul piano operativo ciò si traduce nel fatto che il contribuente, di fatto, potrà invocare uno stato di ignoranza bona fide solo se effettivamente incolpevole, avendo egli diligentemente assolto all’obbligo di adottare tutte le misure che potevano essergli ragionevolmente richieste al fine di evitare il coinvolgimento in catene commerciali finalizzate alla realizzazione di frodi nel settore di riferimento, nonché con riguardo allo specifico stadio del ciclo economico e alle peculiarità dell’operazione.

In questa prospettiva il contribuente si libera solo provando di aver correttamente dato impulso a detta attività, con la conseguente esclusione di qualsiasi profilo di culpa in eligendo o in vigilando.

È difficile dimostrare la buona fede del cessionario o committente, laddove il venditore fatturante sia non solo privo del benché minimo apparato strumentale fisiologicamente preordinato all’esercizio dell’attività di impresa, ma rivesta altresì il ruolo di unico fornitore dell’acquirente. 

Conclusioni

In conclusione, l’annosa problematica delle frodi fiscali, deve essere analizzata affrontando due aspetti:

  • l’esistenza o meno dell’operazione;
  • la buona fede o meno del cessionario, con i relativi profili probatori.

Se sul primo aspetto la soluzione pare “abbastanza” chiara, mentre sul secondo è necessario soffermarsi maggiormente.

È ragionevole, pertanto, sostenere che solo ove l’operatore si sia preoccupato di adottare tutte le misure richiedibili (secondo criteri di razionalità ed equilibrio) per assicurarsi di non essere coinvolto in una frode ai danni dell’Erario possa evitare di correre il rischio di perdere il diritto alla detrazione dell’imposta.  Ciò in virtù e in forza di un dovere di vigilanza correlato al profilo della conoscibilità (prima ancora che della conoscenza effettiva), dovere di cui si reputa corretto pretendere l’adempimento affinché si possa ragionevolmente configurare uno sgravio di responsabilità.

Non è esente da responsabilità di ordine colposo il contribuente che non provi di aver attuato tutto quanto era in suo potere per vigilare sul lecito svolgimento dell’operazione di cui era partecipe. In tal senso, focalizzando l’attenzione sulla risoluzione pratica del problema probatorio, il contribuente non può limitarsi alla mera allegazione di fatture o documentazione contabile attestanti il versamento dell’imposta e la concreta effettuazione delle operazioni: anzi, si potrebbe persino presumere che tali riscontri probatori siano stati predisposti al fine di mascherare sotto una patina di apparente legalità un meccanismo subdolo, tanto più complesso in ragione del numero degli operatori coinvolti nei successivi passaggi di merce.

Egli può tuttavia provare che la documentazione promana da un soggetto (il cedente) percepito, o percepibile, come realmente esistente e non come mera cartiera sulla scorta di elementi certi:

  • l’esistenza della sede sociale e il riscontro della residenza anagrafica;
  • un’adeguata dotazione (anche minima) di personale e di strutturale naturalmente orientata allo svolgimento della specifica attività d’impresa;
  • la vendita praticata a prezzi di mercato e non sottocosto, essendo ravvisabile nella sproporzione tra prezzo praticato e prezzo normale della merce un “campanello d’allarme” circa la presumibile perpetrazione di una frode.

È altresì opportuno che l’acquirente comprovi di non aver ottenuto alcun beneficio economico dall’operazione fraudolenta, mediante strumenti di pagamento tracciabili.

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